every breath you take || OLLY
By halfspokenwords
A meno che tu non sia l'unica L'unica per me le altre le vedo Le altre si che le vedo Ma a te ti sento dentro... More
A meno che tu non sia l'unica L'unica per me le altre le vedo Le altre si che le vedo Ma a te ti sento dentro... More
ma a te ti sento dentro come un pugno
Sole
Mi dicono spesso che sembro troppo composta.
Sono sempre stata la classica bambina responsabile, quella che non dava mai problemi. La preferita delle maestre, l'orgoglio dei parenti, l'amica che "eh, beata te che sei così matura".
Risultato: maniaca del controllo, perfezionista, ipercritica e con standard autoimposti al limite dell'umano.
Se da un lato questa versione potenziata di me mi ha aiutata a raggiungere obiettivi e soddisfazioni, dall'altro mi ha resa praticamente impenetrabile. Nessuno riesce mai a conoscermi davvero.
Ho imparato a trattenere tutto: insicurezze, ansie, piccoli e grandi drammi esistenziali. Li trasformo in un sorriso strategico o in una risposta pronta al momento giusto.
Non è che io non senta le cose, sia chiaro. È solo che ho capito presto una verità semplice ma brutale: gestirle è infinitamente più funzionale che affogarci dentro.
Ecco perché ho scelto Giurisprudenza.
Non perché impazzisca per codici, commi e sentenze (spoiler: assolutamente no), ma perché in quell'ambiente non serve mostrare cosa provi.
In un'aula di tribunale non interessa come ti senti. Vogliono sapere cosa sai dimostrare.
E io voglio dimostrare una sola cosa: che non ho punti deboli. O almeno, che so tenerli ben nascosti.
L'unica persona che è mai riuscita a farmi abbassare, anche solo un po', le difese è mia sorella Vanessa.
Lei è tutto quello che io non sono: istintiva, trasparente, disarmante. Ogni emozione le si legge in faccia senza nemmeno il bisogno di aprire bocca.
Non sente il bisogno di dimostrare niente a nessuno, vive come se il mondo potesse finire domani e tutto sommato... le andrebbe bene così.
Abbiamo solo un anno di differenza, e praticamente una vita condivisa: dalle bambole alle prime cotte adolescenziali, fino all'università.
Lei studia Lingue. Ha sempre avuto il pallino di comunicare con chiunque – anche con i sassi, se potessero risponderle.
È la tipica persona che, in vacanza, mentre tu ancora mastichi l'ultimo cornetto, ha già stretto amicizia con il barista del posto.
Vanessa ora vive a Milano, dove ha vinto una borsa di studio. Io invece sono rimasta a Roma, e sinceramente non potrei essere più felice.
Con Roma ho un rapporto viscerale: ogni angolo ha un pezzo della mia storia, e non ero pronta a lasciarla.
Però ho comunque deciso di uscire di casa, perché volevo dimostrare a me stessa (e un po' anche agli altri) che potevo cavarmela da sola.
Anche se, ammettiamolo, il numero di mamma resta stabilmente nella top 3 dei più chiamati.
Ho vissuto per quasi un anno in una piccola stanza vicino all'università.
Convivevo con una ragazza, Elisa, e no – non è una storia da "amicizia inaspettata".
Abbiamo passato più tempo a discutere che a parlare. Piatti sporchi, panni ovunque, festini organizzati tipo rave nel salotto.
Alla fine del contratto, ho fatto quello che chiunque con un briciolo di istinto di sopravvivenza avrebbe fatto: sono scappata.
Ora mi preparo a una nuova avventura. Ho già conosciuto la ragazza con cui dividerò il prossimo appartamento: si chiama Silvia, e sembra una persona tranquilla.
O almeno lo spero. Perché se anche lei si rivela una versione aggiornata del demonio, potrei seriamente considerare l'ipotesi di tornare da mamma e papà, con tanto di valigia e coda tra le gambe.
In questi giorni ho iniziato il trasloco. Mi manca solo qualche scatolone e gli oggetti più personali, poi posso dichiararmi ufficialmente trasferita.
Così prendo la macchina e torno a recuperarli.
Nonostante l'esperienza tutt'altro che memorabile, quella casa è stata teatro dei miei primi passi nella vita (quasi) adulta.
Staccare le foto dal muro e chiudere in una scatola i miei ricordi ha qualcosa di fortemente malinconico.
Passo le dita su una foto: è il ventesimo compleanno di Vanessa. Ci siamo io e lei, abbracciate e sorridenti, mentre guardiamo l'obiettivo.
Subito dietro ce n'è un'altra, molto meno allegra: sono in Liguria, con Ryan – il mio ex. Una vacanza da dimenticare.
Quel giorno litigammo praticamente dal caffè mattutino alla buonanotte, tutto per colpa di un ragazzo che cantava in un piano-bar a Genova. Fece una battuta mentre passava accanto a me, io risposi con un sorriso e – magia – Ryan scattò come se mi avesse colto sul fatto di un tradimento internazionale.
La relazione con Ryan è stata... complicata. Tesa. Estenuante.
Però mi ha insegnato a riconoscere quando la gelosia diventa ossessione, e soprattutto a trovare il coraggio di scendere dal treno prima dello schianto.
Non è stato facile.
Quelle litigate non erano eccezioni, erano la regola: per come mi vestivo, per come mi truccavo, per con chi parlavo, se sorridevo troppo, se abbracciavo un amico, se osavo dire che un attore era carino.
La gelosia malata si traveste bene, è un animale subdolo, spesso somiglia ad una strana forma d'amore. Poi, un giorno, alzi gli occhi e ti rendi conto che l'amore – quello vero – non c'entra niente.
Sono stata fortunata: ho avuto la forza di dire basta.
Guardo di nuovo quella foto, poi la metto via con le altre.
A parte quell'episodio, Genova mi ha lasciato ricordi belli: il profumo del mare, il cibo, la musica che sbucava dai vicoli. Qualcosa ti rimane sempre addosso.
Continuo a raccogliere le foto: la mia famiglia, il diploma, viaggi, diciottesimi.
Raccolgo anche le ultime felpe, gli appunti di Diritto Romano (il mio attuale incubo inchiostro su carta) e la mia sacca con la piastra – alleata di mille battaglie.
Chiudo l'ultimo scatolone, metto la giacca e mi lancio nel traffico di Roma.
Appena arrivo, vengo accolta dal profumo della pasticceria sotto casa. Ha qualcosa di rassicurante, mi riporta a quando ero bambina.
Nonna Sara aveva un bar e sfornava cornetti tutte le mattine. Il più bello lo teneva sempre da parte per me.
Sono sempre stata la sua cocca.
Mi ha insegnato a giocare a carte, a preparare il ragù, e anche ad alzare la voce quando serve.
"Se non alzi mai la voce, penseranno che non ce l'hai. E allora si sentiranno in diritto di pestarti i piedi."
La sua saggezza spiccia mi ha salvata più volte del previsto.
Era il mio scaccia-pensieri ufficiale. Qualsiasi problema avessi, correvo da lei, e lei sapeva sempre se era il momento di urlare o lasciar correre.
Ora lo so fare anch'io, ma non nego che a volte ho ancora bisogno del suo sguardo, del suo ragù, e di sentirla dire: "Ce la fai, Sole."
Citofono. Mi risponde una voce femminile – probabilmente Silvia.
"Ciao! Sono Sole... sono in anticipo di un giorno. Posso solo appoggiare gli scatoloni e ci rivediamo domani?"
Lei sembra sorpresa, ma gentile: "Ma no, figurati! Puoi restare anche da stasera, mi fa piacere."
Mi stringe la mano con un sorriso, io ricambio e la ringrazio per l'accoglienza.
Mi mostra la casa.
La mia camera è un po' più piccola della precedente, ma luminosa e adatta a me.
Mi porta a vedere gli spazi comuni: cucina e salotto sono collegati, ariosi, accoglienti.
Con fierezza mi mostra il divano: "L'ho scelto io!" dice orgogliosa.
Effettivamente è comodo e si abbina perfettamente al resto della casa.
Mi sento bene.
La casa è calda, familiare. Come se mi stesse aspettando.
Silvia è gentile, tranquilla. Forse, questa volta, sarà diverso.
Mi lascia un po' di tempo per sistemarmi. Faccio una doccia veloce e chiamo mamma: le racconto del trasloco e ci diamo appuntamento per il weekend.
Quando torno in salotto, trovo Silvia al telefono.
"Due margherite e una würstel e patatine..."
Deduzione logica: sta ordinando pizze. Faccio per tornare in camera, ma lei si sbraccia per attirare la mia attenzione:
"Che pizza vuoi?"
Come se fosse la domanda fondamentale della serata.
"Margherita."
Annuisce soddisfatta: "Perfetto."
Poi, senza troppi giri di parole, aggiunge:
"Stasera avevo invitato una mia amica e il suo ragazzo a cena. Sono qui per lavoro, vengono da Genova. Pensavo ti avrebbe fatto piacere unirti... e magari salvare me da una serata da candela vivente."
Mi guarda con aria supplichevole.
Sorrido. "Certo."
Ci sediamo sul divano e iniziamo a chiacchierare.
Mi racconta perché ha scelto Architettura, i suoi sogni, la sua vita a Roma.
"Devo ammettere che Genova mi manca. È casa. Roma mi sta dando delle opportunità, ma GE mi ha vista crescere. Non è facile stare qui...
Mi mancano i miei amici, la mia gente. Ho provato ad ambientarmi, ma faccio fatica. Non sono brava a buttarmi nella mischia."
La ascolto. La nostalgia le si legge in faccia.
È una sensazione che non conosco, ma riesco a intuirne il peso.
Poi parliamo dei miei progetti, della convivenza, della vita che ci aspetta.
"Non sono una maniaca dell'ordine, ma nemmeno una disordinata. Con l'altra ragazza ci dividevamo i compiti senza turni rigidi, ci si accordava di giorno in giorno."
Annuisco. Il suo approccio mi sembra equilibrato.
Mentre apparecchiamo, parliamo di musica, film e libri. Scopriamo un amore in comune per Adele – un ottimo inizio.
Suona il campanello.
Silvia apre e saluta i suoi amici con entusiasmo.
Mi affaccio: "Lei è Sole, la mia nuova coinquilina. Loro sono Alberto e Chiara."
Stringo la mano a entrambi.
Chiara mi abbraccia e mi stampa un bacio sulla guancia. Resto rigida, ma alla fine scoppio a ridere.
"È fatta così. Ti ci abituerai." dice Alberto, con un sorriso complice.
Lo spero davvero.
Perché questa serata leggera, senza aspettative, con risate e pizza e nuove conoscenze, è esattamente quello di cui ho bisogno.
In un mondo universitario dove sembra che tutti siano sempre in gara, stasera mi sento fuori dalla corsa.
E per una volta, va benissimo così.
La cena scorre tranquilla.
Alberto è il classico amico auto-ironico: fa ridere tutti, ma si vede che ha il cuore grande.
Chiara ha l'energia di un uragano: ti travolge, ti confonde, ma alla fine ti affezioni.
E io... io sto bene.
Finalmente.
"Ma come puoi preferire l'amatriciana alla carbonara?! Confessa, non sei romana davvero."
Alberto è sinceramente sconvolto dalla mia – evidentemente inaccettabile – affermazione.
"Odio l'uovo. Soprattutto se mezzo crudo. L'amatriciana è imbattibile. Dici così solo perché non hai mai mangiato quella buona."
Ribatto, pronta a difendere la mia tesi fino alla morte.
"Fammi indovinare... quella buona è la tua?"
"Immagini bene."
Scoppiamo entrambi a ridere mentre Silvia e Chiara ci osservano perplesse, attonite da almeno quindici minuti di dibattito sulla pasta romana.
"Ok, basta parlare di carboidrati. Parliamo di cose serie: cantante preferito?" chiede Chiara.
Non le lascio nemmeno finire la frase: "Marracash e Adele."
Lei sbarra gli occhi: "Tu sei una contraddizione umana! Sono praticamente l'opposto uno dell'altra"
La serata prosegue con chiacchiere e musica.
Non so cosa renda la musica così speciale per me, ma ci ho sempre avuto un legame viscerale. È il mio rifugio, il mio sfogo. Dove tutto quello che sento può venire a galla senza paura di essere riaffondato.
A 16 anni ho imparato a suonare la chitarra da sola, grazie ai tutorial su YouTube. Non sono una professionista, ma me la cavo.
"E quindi sai suonare? Ma ce l'hai qui?" mi chiede Silvia con un guizzo curioso.
Annuisco. La chitarra ha seguito ogni mio trasloco, compagna fedele nei momenti morti e in quelli troppo pieni.
"Allora vai a prenderla! Suonaci qualcosa!"
"No no no, non se ne parla. So strimpellare due accordi, non sono mica pronta per Sanremo."
"Ma che importa?" insiste Chiara. "È solo per stare insieme, mica devi fare un concerto privato!"
Dopo altri tre minuti di suppliche collettive, cedo.
Vado a prenderla.
È una vecchia chitarra di mio padre. La trovai in soffitta un'estate e da quel giorno cercai di capire come funzionava.
La sistemo tra le braccia, cerco gli accordi e penso un attimo.
Poi inizio.
Le note de "Il Pescatore" di De André si spargono nella stanza.
È una delle canzoni che sento più mie.
Papà Dario mi ha cresciuta con De André nelle orecchie. Ogni volta che tornavamo dal mare, ancora scottati e pieni di salsedine, abbassava i finestrini e metteva il volume al massimo.
Appena Alberto riconosce la melodia, gli si accendono gli occhi. Inizia a cantare sottovoce, e poco dopo siamo tutti coinvolti, chi più, chi meno intonato.
Alla fine, cantiamo a squarciagola l'ultima strofa.
Appena smetto di suonare, parte un applauso teatrale.
Io rido, imbarazzata, e faccio un inchino esagerato.
Poso la chitarra a terra e verso l'ultimo goccio di amaro rimasto.
Non sono un'amante dell'alcol, ma in compagnia sa di medicina.
"Comunque," dice Alberto con l'aria di chi ci ha riflettuto a lungo, "è da tutta la sera che ci penso. Ora che hai suonato De André, ne ho la conferma: tu sembri la ragazza perfetta per un mio amico."
Alzo lo sguardo perplessa.
"Cosa?"
"Nulla, cose mie. Ma penso che Silvia abbia già capito di chi parlo."
Guardo Silvia: lo sta fissando con uno sguardo complice e annuisce con un sorrisetto malizioso.
"Ci ho pensato anche io," aggiunge.
Li guardo entrambi, sorridendo con un misto di imbarazzo e scetticismo.
Ho l'impressione che stiano tramando qualcosa. E quel ghigno da cupido improvvisato non promette niente di buono.
Sparecchiamo in fretta e li accompagniamo alla porta.
Chiara mi stringe forte in un abbraccio esuberante, come se ci conoscessimo da una vita.
Alberto, invece, mi dà un bacio rapido sulla guancia.
"Ci vediamo presto, Sole. Voglio assaggiare quella tua decantata amatriciana. Noi saremo di nuovo qui tra due settimane, vediamo di organizzarci."
Annuisco con un sorriso.
Si volta verso Silvia e aggiunge: "Che poi ci dovrebbero essere anche Fede e Julien, ora che ci penso. Dobbiamo assolutamente rivederci."
Le strizza l'occhio, Silvia ride e annuisce.
Io incrocio le braccia e faccio un finto sospiro scocciato.
Deduco che uno dei due amici in questione sia quello che vogliono appiopparmi.
Dopo aver sistemato la cucina e augurato la buonanotte a Silvia, vado in camera, infilo il pigiama e mi butto sul letto.
Ripenso alla giornata.
Mi sono sentita bene.
Non fuori posto.
Non bloccata nei labirinti della mia testa.
Eravamo – siamo ancora – praticamente sconosciuti.
Eppure sembrava ci conoscessimo da sempre.
SPAZIO AUTRICE
Helloo!
Se sei arrivato/a fin qui intanto grazie!
Questa storia nasce completamente per caso, non ho mai scritto nulla ma leggendo spesso alcune storie qui mi è venuta voglia di sperimentare!
Spero possa uscirne qualcosa di bello!
Mi farebbe piacere se mi lasciaste un commento in cui dite ciò che ne pensate (bello o brutto) per migliorare. Grazie mille!!