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ma a te ti sento dentro come un pugno
Federico
Siamo in viaggio. Lei dorme. Non so come faccia: fa un freddo cane sul treno e i sedili sono scomodi da morire. Le sistemo addosso la mia giacca — quella di prima — e provo a farle appoggiare la testa sulla mia spalla. Sul tavolino davanti a noi ci sono ancora tutti i suoi appunti sparsi. Dev'essere stanca morta.
Dovremmo arrivare a Roma verso le sei del mattino. Abbiamo il tempo di passare da casa. La guardo. Le ciglia lunghe, le labbra socchiuse, i capelli ovunque. Ha un modo tutto suo di occupare spazio, anche dormendo.
Ripenso a tutto quello che ha detto stasera. Alle risposte. Alle domande. A quel modo che ha di guardarti mentre ti ascolta, come se volesse essere sicura che ci sei davvero. Che ti stai raccontando per come sei, e non per come pensi di dover sembrare.
Non so spiegare bene, ma da quando l'ho conosciuta certe cose mi sembrano cambiate forma. Come se qualcosa si fosse spostato, impercettibilmente. Un centimetro alla volta.
Fuori è ancora buio pesto. Ogni tanto il treno fischia, attraversa una stazione fantasma, e poi riparte. Tutti dormono. Anche lei.
Io no. Ho il cuore pieno di roba che non so ancora come chiamare. Ma, per la prima volta, non mi sembra una brutta sensazione.
Il treno rallenta. Un cartello sfocato fuori dal finestrino ci dice che siamo quasi arrivati. Guardo l'orologio: 5:54. Roma.
Lei si muove appena, poi spalanca gli occhi, spaesata. «Che succede?» «Siamo arrivati» le sussurro.
Ci mette un attimo a capire dove si trova. Si raddrizza, si guarda intorno. Poi nota la mia giacca sulle sue spalle. «Ah. Gentiluomo fino alla fine.» Sorrido. «Solo con chi se lo merita.»
Scendiamo dal treno insieme. Roma ci accoglie con un freddo tagliente e un'alba di un rosso intenso. Lei si ferma a scattare una foto al cielo, poi gira la fotocamera e ne fa una di noi due. Si avvicina alla mia spalla, si sistema i capelli in fretta, fa una linguaccia. La guardo, in quella posa improvvisata, e mi viene da ridere. Faccio lo stesso.