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every breath you take || OLLY

Fanfiction

A meno che tu non sia l'unica L'unica per me le altre le vedo Le altre si che le vedo Ma a te ti sento dentro come un pugno

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Ci mettiamo finalmente in cammino.

La stradina è stretta, tra vecchie mura e gradini sconnessi. Federico mugugna in sottofondo come un nonno ottantenne col mal di schiena, ma lo fa ridendo, e io con lui.

«È lontanissimo?» chiede dopo il dodicesimo sospiro teatrale.

«No. Cioè... più o meno. Guarda, se smetti di parlare ci arriviamo prima.»

«Certo. Sto zitto. Anche se, con il senno di poi, potevamo restare a casa oggi. Se proprio dovevo fare cardio... c'erano opzioni più piacevoli.»

Un secondo di silenzio.

Poi capisco cosa intende.

Mi giro di scatto e lo fulmino.
«Sei un cretino.»

Lui ride. Io lo fisso allucinata ma mi scappa un sorriso. Mi rigiro con le guance in fiamme.

Arriviamo in cima.
E anche se lo conosco a memoria, quel panorama mi arriva addosso ogni volta. Roma, tutta intera. Dal Colosseo al Cupolone. Il cielo appena sfumato, la città ai nostri piedi.

Federico si blocca, serio.
«...Ok. Valeva la pena.»

Sorrido piano.
«Te l'avevo detto.»

Ci sediamo sulla panchina. Appoggio la busta con le pizze e gli passo la sua. La apre con fame e curiosità, ma prima di mordere si gira verso di me.

«Perché mi hai portato qui?»

«Per la vista... ma anche perché prima parlavi del mare. Di come ti aiutasse a ricaricarti. Ecco, per me questo posto era quello. Da ragazzina venivo qui a piangere o a incazzarmi.»

Lui smette di mangiare. Mi guarda.
Silenzio buono. Di quelli che ascoltano.

«Penso si sia capito, non mi piace mostrarmi. In generale, con chi amo o conosco bene sono tutto fuorché timida. Ma con gli altri... mi chiudo. Divento invisibile.»

Abbasso lo sguardo un secondo.
«Però se c'è una cosa che non ho mai fatto vedere a nessuno — mai — è la tristezza. O la rabbia. Le tengo dentro. Mi sembrano segni di debolezza. Così... scappavo qui. E mi ritrovavo.»

Lui prende un morso di pizza, ma continua a fissare un punto nel vuoto. Sembra stia pensando a cosa dire, ma non forza nulla.

«Lo capisco, sai?» dice poi, con un tono più basso. «Non è debolezza. È... sopravvivenza, certe volte. Fare finta che va tutto bene perché sei stanca di spiegare. O di non essere capita.»

Lo guardo.
C'è qualcosa nei suoi occhi, in quel momento, che non avevo mai visto. Non solo empatia. Come se cercasse di leggermi dentro.

Restiamo lì a parlare, con Roma che ci fa da sfondo. Finite le pizze, buttiamo via i cartoni e ci risediamo. Io poso la testa sulla sua spalla, lui mi accarezza i capelli.

«Oggi è volata. Sono stata davvero bene con te. Non devi dirmi lo stesso, solo che... ecco, magari ti fa piac—»
«Sono stato bene anche io, davvero» mi interrompe lui. Io sorrido e mi giro a guardarlo.

«Comunque, qui non ci è mai venuto nessuno con me, quindi non dire agli altri che siamo venuti qui. Non voglio che tutti conoscano questo posto.»
Lui annuisce e mi posa un bacio tra i capelli.
«Acqua in bocca, promesso.»

«Ho io ora in mente un posto in cui andare» mi dice, prendendomi per mano e avvicinandosi alla macchina.

Parcheggia di fronte ad una gelateria. Ci mettiamo in fila, in attesa del nostro turno.
Oggi abbiamo praticamente solo mangiato, ma va benissimo così — al gelato non dirò mai di no.

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